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Drogati di gioia

In questi giorni il mio cuore è straziato dalle notizie provenienti da più parti sulle violenze che causano sofferenze atroci a molti innocenti. Piango nel constatare quante energie si spendono per erigere muri che ci separano uno dall'altro.

Oggi più che mai mi sento vicina a quelle genti che non hanno più nulla. Vorrei prendere tra le mie braccia i bimbi nati in mezzo alla melma dei campi profughi, dire alle loro mamme che non sono sole, che ce la faranno a crescere i loro figli. Che ce la faremo assieme.

Oggi più che mai, nonostante i figli che ho in affido mi sfiniscano con le loro richieste e con le loro marachelle, la Casa Famiglia in cui vivo mi sembra un’oasi di pace.

Cosa ci faccio qui? Sono cresciuta in una famiglia credente. Uno dei primi libri che mi è capitato tra le mani raccontava la storia di una suora missionaria in Africa. La sua vita tra i poveri mi affascinava. Il camminare con grossi scarponi in mezzo alla foresta per raggiungerli nei villaggi più sperduti mi gonfiava il petto di meraviglia ed ammirazione.

Poi ho conosciuto la realtà degli istituti per bambini disabili ed ho sentito fortissima l’ingiustizia del dividere le persone in categorie. Con alcuni amici ho trascorso qualche pomeriggio della mia adolescenza insieme ai bambini di un istituto. Giocavamo, ridevamo insieme e poi alle cinque noi dovevamo andarcene e loro rimanevano lì. Perché io potevo tornarmene a casa e andare dove mi pareva mentre quei bambini dovevano rimanere chiusi in quelle 4 mura? Non lo sentivo giusto e non lo era.

Desideravo fare “qualcosa”, non sapevo cosa ma ero convinta che “qualcosa” avrei fatto.

Nel 1973 ho poi incontrato don Oreste. Neppure mi conosceva, ma mi ha chiesto di fare da mamma a bambini soli, mi ha dato fiducia e mi ha permesso di scoprire dentro di me qualità che mi erano sconosciute, doni che mi facevano superare i miei limiti.

In me è cresciuto sempre più il desiderio di lasciare tutto e di andare a vivere in terre lontane con i più poveri tra i poveri.

Sono così partita per lo Zimbabwe, rimanendoci solo nove mesi perché il permesso di lavoro non arrivava e non potevo rinnovare il visto. È stato un periodo pieno e molto importante: ho incontrato tanta gente, visitato villaggi sperduti e ovunque andassi la gente mi faceva dei doni. Gente poverissima che però non ti faceva mai tornare a casa a mani vuote. Non serve essere ricchi per donare qualcosa, bisogna avere cuore e quella gente ne aveva da vendere.

Ho incontrato malati di lebbra e ho visto i loro volti sfigurati dalla malattia ma tutti mi hanno accolta con un sorriso bellissimo, che ti metteva subito a tuo agio.

Dopo un periodo trascorso prima in Comunità in Italia e poi in Inghilterra a studiare l’inglese sono ripartita per l’Africa insieme a quattro amici. Era il 1983. Il vescovo di Ndola, in Zambia, aveva chiesto a don Oreste di mandare qualcuno per aprire una Casa Famiglia per bambini disabili mentali, i più reietti tra quei disgraziati perché considerati figli di una maledizione.

Ben presto la casa famiglia si è riempita di bambini malati anche gravemente, ma si stava bene, era una specie di alveare sempre in movimento. Ci si divideva tra lo stare in casa con loro e l’andare in baraccopoli dove si visitavano le famiglie con disabili in casa che non riuscivamo ad accogliere nella nostra.

Ho trascorso tanto tempo con bambini malati in ospedale, fianco a fianco con le mamme che li assistevano. Lì mi sono resa conto di quanto l’ignoranza sia terribile, di come sia capace di uccidere più della malattia e della povertà; quell’ignoranza assoluta, totale, che non ti dà consapevolezza del valore che hai come essere umano e ti fa quasi chiedere scusa di esistere, che ti fa accettare tutto come viene, anche la malattia, anche la morte, come ineluttabile. Un’ignoranza che lacera il cuore e toglie la forza di lottare. Qui ho visto coi miei occhi che l’abbandono uccide: i bimbi lasciati soli possono decidere di non lottare più senza l’abbraccio di qualcuno e lasciarsi morire. Il calore dell’abbraccio di una mamma è vita e dà vita.

Ora faccio la mamma e la nonna a tempo pieno. A volte, magari mentre mi trovo ad affrontare montagne di panni da stirare aspettando che le ragazze tornino a casa da scuola sempre in ritardo e con qualche problema, mi sembra che non serva a nulla vivere con loro e amarle. Poi però capisco che questo amore che sembra poca cosa è invece l’amore vero e necessario, quello che accetta anche di non essere ricambiato.

Adesso che le forze diminuiscono penso a quel SI che dissi a 18 anni e mi sento una privilegiata, grata per la ricchezza di vita che ho avuto, fatta di umanità, incontri, bellezza e di quella fatica che ha reso tutto più vero.

Non so cosa mi riservi il futuro, ma nel mio essere parte di APG23 sento di vivere tutto quello che gli altri membri sparsi nel mondo stanno vivendo, mi sento come una cellula forse un po’ anziana ma parte di un organismo vivo e vegeto.

Questa mattina – ad esempio - mi è arrivata la newsletter della Comunità che informava del nostro intervento nel campo profughi di Idomeni.

E’ stato come tornare ragazza, la stessa sensazione di gioia e pienezza nel cuore. Il mio desiderio di prendere tra le braccia quei bimbi nati nel fango e di consolare le loro mamme è stato esaudito ancora una volta. Le braccia erano quelle di un altro volontario della Comunità che come me condivide l’esistenza di questa povera gente, regalandole speranza e tutto l’amore di cui è capace. Ed è come se quelle braccia fossero state le mie!

Tina

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