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Maledetto da Dio

In Bangladesh, è questo il terribile appellativo rivolto alle persone affette da disabilità, tra il 10% e il 15% della popolazione (dati Organizzazione Mondiale della Sanità). Una macchia, che segna indelebilmente la loro esistenza e quella dei familiari.

Nonostante le campagne di sensibilizzazione promosse e sostenute sia dalle autorità pubbliche locali che dalle associazioni private e ONG che operano all’interno del Paese, dominano tuttora il pregiudizio, la superstizione e l’ignoranza.

La disabilità è qualcosa di cui temere, vergognarsi o ridere. E’ credenza comune che sia causata da forze soprannaturali o da spiriti maligni e che la maggior parte di coloro che ne sono affetti non sia curabile. Ed è spesso a guaritori religiosi e tradizionali come fachiri, kabiraj (stregoni) e maghi che le famiglie si rivolgono in cerca di aiuto.

Le persone disabili finiscono quindi con l’essere relegate ai margini della società.

Nascoste agli occhi del mondo, punizione divina per qualche peccato commesso, trascorrono così le loro giornate sul pavimento di povere baracche di fango, spesso legate ed in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. Non mancano le madri che vorrebbero prendersi cura con amore e forza dei propri figli affetti da disabilità, ma spesso sono costrette all’abbandono da mariti, da familiari o semplicemente da vicini di casa.

Il mancato o ridotto accesso alle cure e le scarse possibilità di reinserimento sociale si accompagnano spesso alla negazione più generale dei diritti civili, politici, economici e sociali.

La Comunità Papa Giovanni XXIII ha iniziato ad operare in questo contesto nel 1999, nel villaggio di Chalna.

Nel rispetto delle tradizioni e della cultura bengalese, i missionari hanno dato vita ad un vero e proprio villaggio, ancora oggi il contesto culturale più forte per la popolazione locale. Al suo interno vi sono oggi 4 case famiglia per minori e disabili e 4 case di accoglienza per adulti, spesso madri sole.

Ci racconta Franca, una delle persone che hanno avviato la presenza in Bangladesh, che all’inizio, per capire il contesto locale in cui erano stati chiamati ad operare, ha visitato alcuni istituti che accoglievano orfani e bambini abbandonati. 8 bambini su 10 erano disabili. Il motivo era molto semplice: le famiglie bengalesi erano pronte ad adottare solo bambini normodotati. Ed è allora che ha capito quali erano i poveri, i più poveri, ai quali si dovevano legare.

Sin dall’inizio i missionari si sono quindi impegnati nell’accoglienza di bambini e ragazzi con gravi handicap, focalizzandosi anche sulla sensibilizzazione della popolazione locale con l’obiettivo di far capire che queste creature non sono una maledizione ma un dono di Dio.

Ricorda Franca: “Visitando i villaggi abbiamo poi visto che erano tantissimi i bambini affetti da gravi forme di handicap. Ricercandone la motivazione, abbiamo scoperto che i matrimoni tra consanguinei sono molto diffusi e che sono molte le donne che partoriscono da sole in casa, senza un adeguato sostegno medico, e tutto questo aumenta le probabilità che nascano bambini celebrolesi. Per evitare che questi piccoli venissero abbandonati a loro stessi e per migliorare la qualità della loro vita cercando di far raggiungere loro la propria piena potenzialità, nel 2000 abbiamo deciso di avviare un centro di fisioterapia in cui oggi lavorano ragazzi qualificati appositamente formati dalla missione. Grazie a questo progetto forniamo gratuitamente trattamenti riabilitativi ed attrezzature per la deambulazione a coloro che ne hanno bisogno. La maggior parte dei pazienti seguiti è costituita da bambini cerebrolesi, con problemi ortopedici e neurologici e da persone colpite da ictus o che presentano traumi a seguito di incidenti. Sono circa 100 i bambini e gli adulti assistiti. La grande soddisfazione che abbiamo quotidianamente è vedere bambini che prima restavano fermi immobili muovere i primi passi. Vedere mamme felici di poter riappropriarsi di figli che hanno conquistato una loro autonomia, perché in Bangladesh autonomia è sinonimo di sopravvivenza.”

“Con il passare del tempo”, continua Franca, “penetrando pian piano nella cultura bengalese ed approfondendo la conoscenza della popolazione locale, siamo venuti in contatto con una disabilità meno visibile ad occhio nudo ma altrettanto devastante per le famiglie che ne vengono colpite: la disabilità mentale. Dei cosiddetti “matti” ci si vergogna anche perché per familiari inesperti sono difficili da gestire. Quante persone abbiamo visto legate con le catene per evitarne la fuga! Quante donne, di indole già fragile, hanno perso la ragione a causa di matrimoni precoci! E così nel 2002, per venire in loro aiuto, abbiamo dato vita al progetto psichiatrico. Ogni settimana uno psichiatra viene all’ambulatorio della missione per visitare i pazienti, ai quali diamo gratuitamente anche le medicine necessarie. Ad oggi aiutiamo con questa modalità circa 350 persone. Tra le principali patologie trattate vi sono la schizofrenia, i disturbi bipolari, i ritardi mentali, la depressione e l’ansia. Lavoriamo molto anche con le famiglie, perché imparino a gestire la situazione in modo consapevole e a vedere i propri cari come risorse e non solo come un problema.”

Tante le storie e i volti incontrati nel corso degli anni.

Continua Franca: “8 anni fa mi trovavo in ospedale a Dhaka con Fatema, una bimba affetta da tubercolosi celebrale che non parlava e non vedeva. Una mattina un alto dirigente dello stato insieme alla moglie è venuto in visita alla madre che era ricoverata nella stessa stanza. E’ rimasto stupito nel vedere me, una straniera, prendermi cura di una bambina così grave. Al vederlo sorpreso, gli ho spiegato che per me Fatema era un dono, perché tirava fuori la mia maternità e la pazienza che credevo di non avere. Lui ha guardato la moglie, dicendole di ascoltare bene. Solo dopo che se ne sono andati, sono venuta a sapere che avevano un figlio disabile e che lo tenevano nascosto in casa, facendolo accudire dalla servitù. Non so che fine abbia fatto quel bambino, ma spero che da questo incontro sia germogliato un seme”.

Oggi sono tante le persone accolte dalla missione.

Come Lorenz, ragazzino autistico, e sua madre. Rimasta vedova, e quindi ancora più povera, si era inizialmente trasferita, in affitto, in un ambiente più modesto. E’ arrivata in missione con il figlio 6 anni fa, disperata, dopo che il padrone della casa in cui vivevano aveva deciso di mandarli via: sua figlia era incinta e lui temeva che, per il solo fatto di vedere Lorenz, potesse dare alla luce un bambino affetto dalla stessa patologia. Oggi il ragazzino sta bene. Va a scuola e si muove liberamente all’interno del villaggio. La mamma dà una mano nelle classi per bambini disabili avviate presso la missione ed è diventata uno dei punti di riferimento della casa famiglia che accoglie disabili abbandonati. E’ felice, dice, perché qui i disabili sono amati e, grazie all’amore, rinascono a nuova vita.

E poi c’è Gabriel. Nato senza gambe (focomelico), è stato lasciato dalla famiglia subito dopo la nascita alle Suore di Madre Teresa di Dhaka dove è rimasto fino a un anno fa quando è arrivato in missione. Da gennaio va a scuola e sta dando buoni risultati. E’ molto vivace, si relaziona bene con agli altri e sembra non far caso al suo handicap. Si impegna per fare tutti i giochi che fanno gli altri, gioca a calcio ed è molto orgoglioso di se stesso. Antonio, il papà della casa famiglia che l’ha accolto, ha ideato appositamente per lui una carrozzina speciale a pedali che gli consente di muoversi in autonomia e di correre con gli altri. Ha così avuto la possibilità di scoprire spazi e distanze che non avrebbe mai pensato di poter raggiungere.

Il nostro compito, qui in Bangladesh, è proprio questo. Ed il sorriso di tanti piccoli rigenerati nell’amore è la nostra più grande ricompensa.

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